I vitigni antichi siracusani
alle origini della viticoltura in Sicilia
2 Marzo 2020 – Da dove potremmo dunque iniziare meglio se non dalla vite, la cui supremazia è tanto incontestata in Italia, che si può avere l’impressione che essa abbia superato, con questa sola risorsa, i beni di tutte le popolazioni, persino di quelle che producono essenze, dal momento che in nessun luogo esiste fragranza maggiore del profumo delle viti in fiore?
Plinio il Vecchio dedica alla vite un intero capitolo della sua Naturalis Historia, attestando di fatto che l’Italia era luogo privilegiato per la coltivazione di questa pianta fin dall’antichità. Una terra benedetta dalla diversità dei territori, dalla benevolenza del clima e dagli apporti di popoli e culture che si sono incontrati, mescolati, sovrapposti nel corso dei secoli.
Oggi, in Italia, secondo le stime, esisterebbero circa duemila varietà di vite disseminate in tutta la nostra penisola. Un patrimonio incredibile, spesso sottovalutato.
Porta d’ingresso per la diffusione della viticoltura in Italia e in Europa e di una consapevole cultura del vino fu l’estremità meridionale del nostra paese, la Sicilia. Se, a passo svelto, seguiamo a ritroso le orme del mito, esse inizialmente ci conducono nell’antica Tracia, terra nativa del divino Dioniso e, per questo, considerata anche patria della vite. Da questa regione che occupa il sud della penisola balcanica, il culto del mitico dio del vino si diffuse in tutta la Grecia e poi, come un’onda spumeggiante, nel Mediterraneo.
Dioniso viaggiò a lungo, per terra e per il “mare color del vino”, forse l’Egeo oppure il nostro mar Ionio, com’è raffigurato nell’antica coppa attica del pittore Exekias (530 a. C.) in cui il dio tiene in mano il corno potorio mentre è beatamente sdraiato sul ponte di una nave, sul cui albero si attorcigliano tralci di vite carichi di grappoli.
Navigatori fenici, micenei e greci diffusero in Sicilia vini orientali, nuove varietà di vite, tecniche di potatura e di allevamento delle piante. Mescolarono la loro conoscenza a quella rudimentale di coloro che già abitavano quei territori. I Greci – ce lo dice Plinio – portarono in Italia alcune grandi famiglie di vite, le “Aminnee” e le “Apiane”, queste ultime contraddistinte da uve così dolci e profumate da attirare le api, da cui probabilmente hanno avuto origine i nostri Moscati e le Malvasie.
Già a quel tempo – ci dice sempre Plinio – le varietà di vite indigene erano numerose tanto quanto i granelli di sabbia di una spiaggia.
Gli scambi commerciali si intensificarono con il tempo e se, inizialmente, essi agevolarono la vendita di vini orientali nei nuovi mercati, successivamente decisero di produrli direttamente in loco selezionando, incrociando, contaminando colture e vitigni.
Ed è così che tutto ebbe inizio.
Il cuore della viticoltura siracusana: gli antichi vitigni di Moscato, Nero d’Avola e Albanello
Dal punto di vista vinicolo, tre sono le principali zone di produzione della Sicilia: l’area del trapanese, con il suo susseguirsi quasi ininterrotto di vigneti; l’Etna, con i terroir tipici del vulcano; la provincia di Siracusa, cuore del sudest, con il lento scivolare dell’altopiano ibleo verso il mare e il miscuglio di calcareniti argillose e antichissima roccia vulcanica, risalente ad almeno 24 milioni di anni fa.
A Siracusa, parlare di vino significa tornare a più di duemila anni fa per ricostruire le origini del Moscato di Siracusa, del Nero d’Avola e dell’Albanello, vitigno leggendario che ha rischiato di scomparire.
Il Moscato di Siracusa
Fu il celebre archeologo siciliano – scopritore della Venere Anadiomene oggi custodita al Museo P. Orsi di Siracusa – Saverio Landolina Nava (Catania 1743 – Siracusa 1814) a dissolvere le nebbie che aleggiavano intorno alle origini del Moscato di Siracusa. Egli seguì il lungo e sottile filo che, da Omero ed Esiodo, passando per le citazioni e i riferimenti degli antichi, congiungeva l’antico vino Pollio al Moscato siracusano che si produceva ai suoi tempi.
Analisi meticolosa delle fonti, confronto attento tra le antiche tecniche di vinificazione e quelle moderne in uso ai suoi tempi, che risultarono affini, permisero allo studioso di considerare il Moscato di Siracusa diretto discendente del vino Biblino o Pollio e, quindi, il vino più antico d’Italia, forse anche d’Europa.
Si chiamava vino Pollio perché un mitico re di Siracusa, di nome Pollis, lo ricavò dall’uva Biblina originaria dei monti della Tracia e portata in Sicilia dai Greci ai tempi della colonizzazione (VIII sec. a. C.), come racconta lo scrittore greco Ateneo nei Deipnosofisti. La fonte di quest’ultimo è uno storico italiota del V sec. a. C., Hippis di Reggio, secondo il quale il Pollio si ricavava da una varietà di vite “eileos” ovvero “vite che si attorciglia”, chiamata anche Biblina.
Dionigi I (432-367 a. C.), tiranno di Siracusa, istituì addirittura un fondo, destinato a uso e consumo della reggia, per la coltivazione delle uve di Moscato e per la produzione di questo vino.
Quando Plinio il Vecchio descrisse le varietà di vite diffuse in Italia, probabilmente annoverava già anche il Moscato di Siracusa tra le viti “apiane”, note per la dolcezza e la fragranza delle uve che attiravano le api. Identificò, poi, il Pollio con un vino dolce chiamato Haluntium che “nasceva in Sicilia e aveva sapore di mosto”.
Per lo storico latino Eliano, “laudatissimus erat Syracusanis Poliumvinum”.
Dal 1200 in poi, il Moscato entrò nelle prime opere in lingua italiana, a indicare quei vini dolci e aromatici prediletti dalle classi sociali più elevate in Sicilia.
Ne troviamo citazione in diversi componimenti burleschi siciliani del 1500, che ne esaltavano qualità e virtù, e in numerosi documenti testamentari del periodo, in cui il territorio della “Fanusa” (zona costiera del siracusano dove, oggi, si trova la nostra cantina, ndr) era indicato come specifico per la produzione di vino Moscato.
Lo storico Fazello, uno dei primi a intravedere il legame tra il Moscato e l’antico Pollio, ne parlò come di un vino “dolce, di grato odore e soavissimo”.
Le navi del Re Sole (1643-1715) approdavano nel porto di Ortigia per rifornirsi di vino Moscato. Alexandre Dumas inserì i “Moscati bianchi e rossi di Siracusa” nel suo grande Dizionario di cucina (1873) tra i vini liquorosi più famosi e, nel suo romanzo I tre moschettieri, i protagonisti brindavano con Moscato di Siracusa. Anche il conte di Montecristo, nell’omonimo romanzo, lo offre regolarmente ai suoi ospiti.
Un vecchio fascicolo del Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, risalente al 1916, faceva riferimento, tra le diverse produzioni siciliane, a “dei vini speciali molto stimati. Tra di essi è degno di nota il Moscato di Siracusa che è un vino limpidissimo, di colore giallo dorato, con aroma delicato ed intenso, con sapore giustamente dolce, gradevolissimo. Si produce principalmente ad Avola, a Noto, a Pachino, a Siracusa e a Vittoria”.
Albanello
Era uno dei due “carichi” scoperti da Mario Soldati a Siracusa durante il suo viaggio in Sicilia negli anni ’70: l’Albanello, uno dei vitigni antichi e storici di Siracusa, dalle origini misteriose che si perdono tra accenni storici, mito e leggenda.
Nel V sec. a. C., il poeta siciliano Epicarmo esaltava nei suoi versi anche “l’aristocratico Albanello”.
Secondo una vecchia leggenda sull’Albanello, riportata nel 1958 sul numero 43 del Corriere Vinicolo, “l’Albanello di Comiso nacque sul fiorire dell’alba, per rallegrare la partenza di un crociato, poiché i familiari non potevano fare alcun brindisi in quanto poveri e privi di vino”.
I vini che si producevano da questo vitigno, caratteristico della zona di Siracusa, erano molto apprezzati nelle tipologie secco e asciutto, dolce e liquoroso, e altrettanto ricercati, anche se difficili da reperire e molto costosi. La coltivazione era limitata alla provincia di Siracusa, dove nel tempo si è ridotta a pochi esemplari: la nostra cantina è, oggi, l’unica in Sicilia a produrre un vino bianco da Albanello in purezza.
Nella lunga dissertazione sul vino Pollio siracusano, il solito Saverio Landolina Nava sosteneva che l’Albanello fosse da preferire al Moscato perché più soave, privo di quella “grassa dolcezza” e “più fluido, brillante e delicato”, anche se – ammetteva – “è molto raro e forse non è conosciuto fuori dalla Sicilia”.
L’Albanello è menzionato nel 1700 come una varietà di vitigno storico di grande valore: l’enologo ottocentesco Giuseppe Rovasenda lo annoverava tra i “migliori vini liquorosi” e Giovanni Briosi, altro illustre enologo, nel 1879 spiegava che “l’Albanello non è molto noto in commercio, specialmente all’estero, e pure si potrebbe con esso ricavare il migliore vino asciutto di tutta la Sicilia”.
A Siracusa, il primo produttore di Albanello di cui abbiamo notizia era la nobile famiglia Landolina che, nel 1712, coltivava questo vitigno e ne vinificava le uve insieme a quelle del Grillo.
Nero d’Avola
Il vitigno Nero d’Avola era conosciuto in Sicilia fin dalla fine del 1600.
Apprezzato per la buona qualità delle sue uve, era diffuso con il nome di “Calabrese”, “Calavrisi” o “!Calaulisi”, tipico della zona di Avola (in provincia di Siracusa) come dimostra la stessa etimologia del nome: Calaulisi, infatti, fonde i termini dialettali “cala”, che significa uva, e “aulisi”, di Avola.
Il Nero d’Avola è, oggi, il vitigno a bacca rossa più importante della Sicilia, diffuso ormai in tutta l’isola, anche se un tempo era coltivato prevalentemente nel territorio siracusano. Rappresenta la base di alcune delle più importanti produzioni vinicole dell’isola, come il Cerasuolo di Vittoria, primo blend della storia ottenuto da uve di Nero d’Avola e Frappato.
Per Angelo Nicolosi, nel 1870, il Nero d’Avola era tra le “specie più pregiate per il vino, che in Sicilia si coltivano”.