Il vino dolce, archetipo del vino: agli albori della viticoltura
Il vino dolce è l’essenza della civilizzazione europea e assaggiarlo significa
ripercorrere le radici storiche della viticoltura.Attilio Scienza
Non esiste vino più antico del vino dolce.
Perché il vino, fin dalle sue più remote origini, nasce dolce.
Quando la viticoltura era ancora un’arte grezza e rudimentale, i primi vini ricavati e prodotti dalle uve raccolte erano dolci, simili a uno sciroppo cui, a volte, si aggiungevano miele, spezie e resine. Per gli Ittiti e i Traci solo i re potevano bere vino dolce; per i Sumeri, invece, il vino buono, puro e dolce era rosso e lo riservavano solo agli dei; per gli Hyksos, una popolazione semita dell’antico Egitto, il vino dolce nasceva da uva passa nera.
L’Italia, con la Sicilia in testa, vanta una lunga, antica e consolidata tradizione di vino dolce, gli antenati di tutti i vini: i dolci erano le perle dell’antichità, secondo Omero e, non a caso il vino più antico d’Italia è un vino dolce siciliano, il Moscato di Siracusa, edùs e glukùs nella comune accezione dei Greci.
Nell’antica Palestina, il vino dolce era particolarmente apprezzato e si otteneva lasciando appassire i grappoli d’uva per tre giorni al sole.
Il vino dolce aveva anche un grande vantaggio, di cui ben presto si resero conto gli antichi e che ne decretò il suo successo: si conservava bene, più a lungo e si poteva esportare anche in luoghi lontani da quelli di produzione. Ne affinarono la tecnica perché avevano compreso che l’appassimento dell’uva al sole favoriva la concentrazione di zuccheri, acidi e sali minerali, innalzava il grado alcolico e il vino durava di più. Il vino così ottenuto era più stabile, longevo e manteneva inalterati sapori e profumi.
Il vino dolce, vino da meditazione
Quando parliamo di vino dolce, ricorriamo a una definizione tecnica che allude al residuo zuccherino presente in questa tipologia di vini, il cui mosto non ha svolto tutta la fermentazione degli zuccheri dopo la pigiatura dell’uva. Può nascere da uve fresche o passite, ma la pratica dell’appassimento, che comportava la disidratazione degli acini e la concentrazione degli zuccheri, è tra le più antiche e risale ai Greci: essi distinguevano tra pramnios o creticos, che era il vino passito, e siriaisos o hepsema che, invece, era il vino cotto. Per i Romani esisteva il vinum passum e il vinum defrutum. Ci volle poco perché fossero tutti conquistati dalla delizia di questa bevanda, nata per motivi logistici, perché fossero affascinati dalla delicatezza dei profumi che sprigionava, dall’intensità degli aromi, dalla forza del sapore di questo nettare meraviglioso.
Nonostante le sue antiche radici storiche e culturali, il vino dolce è stato per lungo tempo considerato figlio di un dio minore, erroneamente relegato a vino da dessert, e ha scontato l’inopportuno confronto con i vini rossi, ritenuti invece più forti, corposi, decisi.
Il merito della riscoperta e valorizzazione dei vini dolci fu del celebre enologo, giornalista e scrittore Luigi Veronelli che, negli anni 70, diede il giusto risalto alla storia, alla lunga tradizione e alle indubbie qualità di questa categoria di vini che racchiude l’essenza e rappresenta l’origine del vino, da degustare in abbinamento con il cibo oppure da soli, per coglierne ogni dettaglio, sapore, sfumatura aromatica. Catalogò ben 110 vini dolci per restituire dignità a questa categoria di vini, onorata dalla storia e maltrattata dalla modernità.
Sebbene perfetti in abbinamento, egli coniò per i vini dolci la definizione di vini da meditazione, per sottolineare con più forza che il valore di questi vini va oltre l’essere semplici vini da fine pasto, buoni semmai per accompagnare una fetta di torta o dei biscotti. Al pari dei loro fratelli bianchi e rossi, sono vini complessi, dalla struttura ampia e dalla ricca varietà dei profili aromatici. Nei vini dolci siciliani è facile cogliere aromi e sapori di frutta secca, uva passa, fico, prugna secca e dattero, di frutta gialla come albicocca e pesca, di frutta esotica e tropicale come mango, melone e ananas, oltre alle note di miele, noci, cannella e vaniglia. Hanno personalità, una lunga storia da raccontare che risale a un lontano passato e si possono degustare anche da soli, lentamente, con animo rilassato e pronto a cogliere ogni sfumatura, ogni fragranza, lasciando che sia il vino, poco a poco, a svelare le proprie peculiari componenti aromatiche.
Dall'antico vino Pollio ai giorni nostri
L'eterna giovinezza del vino dolce Moscato di Siracusa
Il Moscato di Siracusa è l’illustre epigono di una tradizione lunga più di duemila anni che si perpetua intessendo tra loro storia, mito e cultura, proprio come in un calice di vino si mescolano profumi e sapori diversi. Uno dei pochi vini a vantare una genealogia certa: il suo diretto antenato è il vino Pollio, così chiamato dal tiranno siracusano Pollis che, per primo, introdusse a Siracusa la vite biblina (proveniente dai monti Biblini, in Tracia).
Scrive Saverio Landolina Nava, storiografo ed enologo vissuto a cavallo tra il ‘700 e l’800, che «il nome Pollio fu dato in Siracusa a quello stesso vino altrove chiamato Biblino» e che egli identificò con il Moscato di Siracusa perché, confrontando le relative tecniche enologiche moderne con quelle descritte da Omero, Esiodo e Plinio, esse risultavano simili. La sua intuizione, quindi, fa risalire le origini del Moscato di Siracusa all’VIII-VII sec. a. C., quando i Corinzi di Archia giunsero sulle coste siracusane e qui fondarono la città, 2750 anni fa.
Il Moscato di Siracusa è, dunque, il vino più antico d’Italia, forse anche d’Europa.
Dionigi I (432-367 a. C.), tiranno di Siracusa, istituì addirittura un fondo, destinato a uso e consumo della reggia, per la coltivazione delle uve di Moscato. Plinio il Vecchio definì l’uva Moscato apiana, tanta era la sua dolcezza che richiamava, appunto, le api. Per lo storico latino Eliano, laudatissimus erat Syracusanis Poliumvinum.
Dal 1200 in poi, il Moscato entrò nelle prime opere in lingua italiana, a indicare quei vini dolci e aromatici prediletti dalle classi sociali più elevate in Sicilia. Ne troviamo citazione in diversi componimenti burleschi siciliani del 1500, che ne esaltavano qualità e virtù, e in numerosi documenti testamentari del periodo, in cui il territorio della Fanusa era indicato come specifico per la produzione di vino Moscato.
Lo storico Fazello, il primo a intravedere il legame con l’antico Pollio, ne parla come di un vino dolce di grato odore e soavissimo. Le navi del Re Sole (1643-1715) approdavano nel porto di Ortigia per rifornirsi di vino Moscato. Alexandre Dumas inserì i moscati bianchi e rossi di Siracusa nel suo grande Dizionario di cucina (1873) tra i vini liquorosi più famosi e, nel suo romanzo I tre moschettieri, i protagonisti brindano con Moscato di Siracusa; il conte di Montecristo, nell’omonimo romanzo, lo offre regolarmente ai suoi ospiti.
Eppure, per un certo periodo di tempo, la produzione di vino Moscato, in Sicilia e in particolare nel siracusano, subì una battuta d’arresto. L’epidemia di fillossera – un parassita che aggredisce le radici delle viti – diffusasi nel corso del XIX sec. in Francia, flagellò l’Europa e l’Italia, minacciando seriamente la viticoltura europea e decimando la produzione vitivinicola italiana: alcuni vitigni autoctoni resistettero, di altri si persero le tracce. In Sicilia, la superficie coltivata a vite si ridusse da 320.000 ettari a 175.000. E quando, nel 1884, la fillossera giunse nel siracusano, i vitigni di Moscato ne furono vittime eccellenti: la produzione declinò irrimediabilmente; nel 1960 – stando a quanto riportato da Bruno Pastena – erano pochissimi i vigneti di uve Moscato nel territorio compreso tra Siracusa e Floridia.
L’anno di svolta? Il 1973, quando fu approvato il disciplinare di produzione della DOC del Moscato di Siracusa. Ma solo a partire dagli anni Novanta i vitigni di Moscato iniziarono a ripopolare il territorio siracusano, restituendo a questo vino dolce e profumato il posto che gli spetta nella storia e nell’enogastronomia.
Calici di Storia dal 1793
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