Cambiamenti climatici: l'impatto sulla viticoltura
I vignaioli sanno che un buon vino si fa in vigna.
Che tutto inizia da qui, da quegli arbusti apparentemente così fragili, capaci però di sfidare le intemperie mentre, nel silenzio che li circonda, attendono l’arrivo della primavera e l’inizio di una nuova vita. Il lavoro dell’uomo accompagna e agevola questo processo in tutte le sue fasi, con le quotidiane attività di pulizia dei vigneti e di potatura delle piante, con l’attenzione e l’accortezza necessarie a non turbare quel sonno di rigenerazione e quegli equilibri così delicati. Al resto pensa la natura che, in tale contesto, si ritaglia il proprio spazio e dall’aria, dai raggi solari, dal suolo prende tutto ciò di cui ha bisogno.
L’estrema varietà pedoclimatica ha fatto la fortuna della viticoltura in Sicilia.
Tra mare e montagna, tra vulcani e pianure, la vite ha trovato fin dall’antichità un habitat naturale con terroir unici per esprimere uve di pregevole qualità. Come produttori – e non solo – abbiamo la responsabilità di preservare questo paesaggio, minacciato dai nefasti effetti che il riscaldamento globale potrebbe avere nei prossimi decenni sulla vita dell’uomo e sulle attività agricole, in particolare sulla viticoltura.
Si sono già verificati cambiamenti climatici nella storia. Se andiamo a ritroso nel tempo, per esempio dopo la terribile peste nera del 1346, tra il XIV e il XVIII secolo, il clima mutò significativamente. Per i climatologi moderni fu una “piccola glaciazione”, iniziata intorno al 1430, che influì negativamente, per via delle temperature rigide invernali, sulla viticoltura europea. Il picco massimo del gelo si registrò nel 1600, tra il 1683-84 il fiume Tamigi gelò per due mesi in inverno, il ghiaccio raggiunse uno spessore di 25 cm. e la coltivazione della vite, attività molto fiorente nel Medioevo, fu progressivamente abbandonata, a tutto vantaggio di francesi e italiani.
Quando, nel 1800, in Europa e in Italia si diffuse la fillossera, il parassita che aggrediva le radici delle piante di vite, il volto della nostra viticoltura cambiò radicalmente: in Sicilia la superficie vitata fu dimezzata e, nel siracusano, scomparvero moltissimi vigneti di Moscato e di questo vitigno nobile si persero a lungo le tracce.
Il clima è essenziale perché le piante di vite possano crescere e fruttificare. Nel nostro territorio cresceva spontanea già prima dell’arrivo dei Greci durante la colonizzazione dell’VIII sec. a. C., ma non tutti i luoghi e tutte le condizioni climatiche le sono congeniali: climi troppo rigidi, per esempio, sono incompatibili con la viticoltura così come climi eccessivamente caldi non ne permettono una normale fruttificazione.
“In Europa – l’indicazione si trova nel Manuale del Sommelier curato dall’Ente Vino Enoteca italiana – il limite botanico alla coltura della vite è rappresentato dal 47° parallelo di latitudine nord (il corso della Loira) o dall’isoterma 11°, oltre il quale o le temperature estive sono insufficienti a garantire un’adeguata maturazione delle uve o le minime termiche invernali risultano letali per la pianta (da -20° a -25°C).
Il limite meridionale, invece, è segnato dal Mediterraneo: al di là, tra l’equatore e il 20° parallelo (prossimo all’isoterma 24°) la vite non può vivere o, meglio, avrebbe una durata molto breve, in quanto vegeterebbe e fruttificherebbe senza interruzione e andrebbe soggetta a gravi attacchi parassitari”.
I cambiamenti climatici in Italia e nel mondo: come potrebbe cambiare la viticoltura secondo lo studio della National Academy of Science.
Un recente studio della National Academy of Science degli Stati Uniti ha rivelato che un aumento di almeno quattro gradi Celsius delle temperature (nel 2050) potrebbe danneggiare l’85% dei vigneti di tutto il mondo, il 90% in Italia, dove il clima è più caldo. Se anche – spiegano gli scienziati – si riuscisse a contenere l’aumento a soli 2°, rischierebbe comunque il 50% dei vigneti.
Nello studio, gli scienziati ipotizzano uno scenario in cui Germania, Nuova Zelanda e l’area del Pacifico nord-occidentale degli Stati Uniti, regioni più fresche, non avrebbero particolari conseguenze dall’innalzamento di due gradi della temperatura e potrebbero iniziare a coltivare varietà vinicole adatte a climi più miti; al contrario, regioni più calde come Italia, Spagna e Australia risulterebbero le più danneggiate perché rischierebbero di perdere le varietà attualmente coltivate.
Gli autori dello studio suggeriscono di arginare le perdite con la diversificazione e la selezione di quelle varietà di viti che meglio potrebbero resistere alle condizioni climatiche più estreme prospettate.
Di contro, questo determinerebbe uno stravolgimento dell’identità dei territori con la scomparsa di alcune delle produzioni tipiche. Eppure proprio i vitigni autoctoni “stanno reagendo sicuramente meglio rispetto al resto delle varietà presenti nel nostro Paese”: lo sostiene Attilio Scienza, docente universitario e tra i maggiori studiosi a livello internazionale di viticoltura. “I vitigni autoctoni sono frutto di un ciclo di selezione di alcune migliaia di anni, attraversano fasi climatiche estreme e per questo hanno accumulato nel loro DNA, per effetto di incroci spontanei e mutazioni, dei tratti genetici che consentono loro di superare condizioni climatiche davvero difficili. Questi geni sono però conservati al loro interno senza aver mai avuto la possibilità di esprimersi, possibilità che è resa fattibile solo dall’incrocio con i processi di ricombinazione e con la successiva selezione. Rappresentano solo una punta dell’iceberg, sotto nascondono un Dna molto più complesso che si adatta ai cambiamenti climatici. Hanno, quindi, ancora molto da dare e da dirci”.
Diversità, tutela e rispetto del territorio, sostenibilità: il futuro è nelle nostre mani.